bar Gaeta
bar Gaeta

Bar Gaeta

Per una donna del nord come me, Gaeta è affascinante e inafferrabile.

Partendo da una “stampa su tela” di una veduta di Parigi di Utrillo, (tela e cornice trovati insieme per strada) dall’atmosfera grigia e cupa, ma raccolta, che può rappresentare ogni antico agglomerato urbano, sono intervenuta su quel fondo con smalti a bomboletta e mascherature.

In primo piano una figura femminile tratta dall’Eneide: la nutrice di Enea, Caieta (da cui secondo la leggenda nasce il nome del luogo della sua sepoltura, “Gaeta”). Mi sembra un bel personaggio che in genere viene rimosso dalla promozione turistica su Gaeta-città probabilmente proprio perché ha a che fare con la morte. Trovo invece affettuoso il pensiero attribuito all’eroe virgiliano di non dare alla propria balia una sepoltura in acqua, come tutti i marinai e viaggiatori per mare, ma di approdare e seppellirla nella “madre terra”!

Il gatto, sagoma tracciata col pastello - l’avevo già tracciato prima di dedicare il quadro a Gaeta - è rimasto lì, come fosse il racconto della nutrice. Un gatto pescatore. Nel cielo bianco di luce- così ricordo le viuzze del centro storico- il pesce, che il gatto cerca di prendere, è del colore del mare.

Due insegne luminose BAR e GAETA indicano luoghi (forse “maschili”, come i bar in Italia, rispetto al “femminile” della balia che però è anche lei, per il bambino, una sorta di bar) ; potrebbero essere qui o là, nel mondo.

La cornice ricorda il colore di alcune case fronte mare.

Kika Bohr

 

Bar Gaeta, 2013, smalti, acrilici e pastello su tela, 40x60 cm.

babayaga 2008
babayaga 2008

I cani, con la loro breve vita, felice o infelice, ci somigliano. Seguono istinti primari molto forti, ma chi può dire cosa celano i loro pensieri? i loro sguardi sono misteriosi. E pur nelle loro malefatte (rovistare nella spazzatura, rubare una coscia di pollo da un tavolo o assaggiare il gelato di un bambino) conservano una certa innocenza che ci attrae.

 

Kika Bohr

 

 

Storia di acquerelli

Ora capisco quei momenti in cui lei mi comunicava con soddisfazione un suo successo artistico, quando mi diceva ad es.: “Ho fatto degli acquerelli ! (punto esclamativo)”. Certo, quando lei mi comunicava in passato i suoi successi artistici e la contentezza che li accompagnava io capivo la sostanza, ma non riuscivo a dare un valore alle parole. Capivo che: sono riuscita a dipingere, ho trovato un buon soggetto e mi sentivo ispirata, come rapita dai colori, ecc. Ma tutto questo, mi chiedevo, perché lo viene a dire a me con tanta insistenza? Chi sono io?

 

In realtà quando lei raccontava quei suoi successi stava comunicando qualcosa a livello simbolico. E mi è venuto in mente così, anche se è una traduzione un po’ forte. Quegli acquerelli testimoniano la sua riuscita, il suo non sprofondare più nelle emozioni, nei bei ricordi, rimanere lucida sulla cosa più importante, ovvero seguire la sua inclinazione (pendenza, scendere…) Ogni successo è un'organizzazione di materiale in modo che non generi più angoscia. Una sorta di terapia. Con ogni opera K. evita un baratro e realizza un congiungimento. Ma che cosa dipinge K.?

 

Ce ne ho messo di tempo, per capire. Consideravo quelle esibizioni come un fatto narcisistico, un voler dire agli altri i propri successi ma solo per ascoltarsi. Eppure quegli annunci, detti a <me> dovevano essere diversi. Mi chiamavano a uno sforzo di comprensione, e soprattutto di complicità. Certo, ci sarà anche la componente narcisistica. Ma quello che oggi mi sembra più plausibile è considerare quegli annunci al mondo la soddisfazione di chi è riuscito a dominare la paura, a superare la paura della solitudine, dell’insuccesso, della povertà materiale dell’artista, della maledizione della grande storia sui combattenti solitari. (e qui ci vorrebbe un discorso sull’economia dell’artista da solo e sull’orgoglio di K. per ogni suo piccolo successo economico). Kika è arrivata alla vocazione artistica superando l'ovvia paura di essere stritolati dalla quotidianità dell'artista solo, quella stessa paura che la portava a rincantucciarsi al mio fianco, per essere protetta. (Purtroppo, per lei, non ha scelto l’arte perché stufa di lavorare in banca o in Università. La scelta artistica non era sua, era come preordinata nella storia della famiglia, le pendeva addosso, e con quella pendeva su di lei anche il macigno sociale. Semmai aveva scelto di lavorare in Università per non fare l’artista.).

Poi, pian piano, ha avuto il coraggio di uscire allo scoperto, si è sentita più protetta da se stessa, e l’ha vissuto anche come un riscatto da una posizione – quel cantuccio al mio fianco – francamente meno piacevole di quanto sembrasse. Nonostante io mi senta felice, anche un po’ orgoglioso, di averla protetta, contento in un certo senso anche del fatto che, a un certo punto, se ne sia andata, da quel cantuccio, nonostante questa mia contentezza non è ancora dato capire la portata di quegli acquerelli, e di quella esclamazione, “Ho fatto degli acquerelli!”. Bisogna tirare in causa l’epifania.


La vera epifania è di secondo grado, al di sopra di queste prime riflessioni, ed è una considerazione talmente banale che è illuminante soltanto dopo il ragionamento che ho appena svolto.

E’ un’epifania che all’inizio volevo tenere per me.

 

La vera epifania sono i temi ricorrenti della sua pittura, prima dell’ultima fase, prima che diventasse concettuale. I temi, banalmente, sono i suoi amori, i suoi affetti, le persone care, gli amici, le piccole emozioni del suo raggio privato.

Ma quanto tempo ci ho messo per capirlo!

Questi soggetti mi lasciavano in parte perplesso. Erano svolti in modo raffinato, e innovativo, con una ricerca estetica mordace, che stava prendendo come uno slancio. Eppure mi chiedevo: ma che senso ha ritrarre sempre gli amici? Che cosa vuol dire?

Voleva far pace con gli amici ? Voleva riversare sugli amici, sui cani, sugli amori un affetto di ritorno ? Una sorta di compensazione, come quando si torna a casa da un lungo viaggio con un bel regalo, per farsi perdonare l’assenza: Ecco, sono diventata una artista, ma per parlare di voi!

In realtà l’epifania mi dice dell’altro: K. cercava di riscattare quel lungo periodo della sua vita dove sembrava che non vivesse in lei il fuoco della passione estetica. Quella passione ha sempre funzionato senza interruzione, e produceva visioni, emozioni, anche se soprattutto nel suo animo. Ma con qualche ricaduta ‘artistica’ anche nel suo privato, atti primordiali, prove di vita. Poi, a un certo punto, si è voltata indietro, e tutto ha cominciato a disporsi in una nuova dimensione. E’ proprio questo che vuole dire , oggi, con i suoi acquerelli: “Miei cari, non è cambiato nulla rispetto a prima, sono sempre io, sono la KIKA (nomen est omen, sono la vostra di sempre).

Ma anche questa prima ipotesi, narrativa, storica, rende ragione solo in parte del processo. Perché per lei dipingere non è ingraziarsi l’altro – un tentativo di seduzione orizzontale, di cui sarei specialista io – ma è il racconto di prima. Le immagini che K. realizza non sono di oggi, sono la storia di quando non era artista ma già dipingeva con le emozioni. E’ un riappropriarsi, a ritroso, di quella vita vissuta nell’attesa della vocazione. Ed è proprio questa componente laica e umana che ne fa una pittura anti-estetizzante, carica di ironia, che si compiace al massimo di essere occasionale, d’occasione, quindi futile come strumento, perché canta la bellezza della vita prima che diventi mito, simbolo, rappresentazione. K. mette in scena la vita quotidiana, l’artista agisce per gioco, ma non è puro, è un artista impuro, antimaniacale, da tecnica mista, è quella che è sempre stata. I prodotti delle sue mani sono le proiezioni di quello che vedeva, della bellezza che si organizza già negli occhi di ciascuno di noi, basta saper guardare, senza essere artisti. E questo è il messaggio etico: siate in grado di distinguere la bellezza, l’umanità, i sentimenti, i valori in cui credere, siate fermi, siate affidabili. Poi alla fine una voce ti chiama e dice: vai, dipingi tutto quello che hai visto.

E’ evidente che K. vuole e può spiccare il volo solo con gli altri che la circondano, gli altri che lei ama e che spero la amino. In questo senso è molto narrativa, e deve fare molta fatica per portarsi dietro tutti questi fardelli. Per lei l’arte è anche fatica. Ma dagli altri si distanzia quel poco per vederli, ritrarli, per organizzarli sulle superfici e nei volumi, quello stretto necessario per rimetterli nel gioco dei sentimenti e dei colori.

Qualche volta, qualcuno dei suoi cari, anziché essere eternamente grato di essere finito su una tela ritratto come il principe del nord, avanza richieste, si sente trascurato. Lo stesso vale per un figlio, o per un amico. Questo è il destino che vuole condire col fiele il banchetto della bellezza che la circonda. Chissà se saprà resistere. Noi tutti ce lo auguriamo perché vogliamo da lei ancora molto, di noi, di lei.

Tutto questo, si riferisce ovviamente al primo periodo di K. Il secondo, più concettuale, organizza le emozioni nella mente. Ma su questo, bisogna aspettare illuminazioni.

 

Roberto Menin (Milano 2012)

come immaginavo il Salento a Milano         olio su tela 100x100 cm. (2006)
come immaginavo il Salento a Milano olio su tela 100x100 cm. (2006)
cartamoneta (2004)
cartamoneta (2004)

Carta-moneta

 

Carta a mano, mani che trafficano nell’acqua. Pescarvi le fibre di cellulosa con un piccolo telaio. Inserire qualcosa tra le fibre. Le famose dieci lire (in alluminio, leggerissime), magari quelle passate sotto il tram della nostra infanzia.

 

Lire, Groschen o Euro, il denaro come l’oro è tabù. La buona educazione vuole che non se ne parli. E gli esseri umani uccidono per il denaro come per l’oro.

 

La moneta agisce anche in assenza: con i colori, le monetine impresse nella carta sono rimaste bianche.

 

message in the bottle, Centenario della CGIL, Siracusa, 2006
message in the bottle, Centenario della CGIL, Siracusa, 2006

Sogni, ricordi, speranze

 

Questo lavoro si ricollega sia alla serie di collage Luna e tapezzeria (collage fatti di tapezzeria in carta con tema onirico, esposti nell’estate 2005 a Benevento) sia al progetto Message in the bottle, un progetto che va avanti in vari modi e sotto varie forme. Il profilo delle montagne è quello che si vede da Ginevra. Il mare è il Mediterraneo con le sue onde greche. Che cosa conterrà la bottiglia? Tutte le nostre speranze, naturalmente.

 

 

 

 

Message in the bottle

Mia nonna, che eccelleva nell’arte di preparare le marmellate, affermava che anche i bambini, a una certa età, sarebbe meglio metterli in conserva! Questa battuta ricorrente era il suo modo di voler fermare il tempo più bello.

Quando mi hanno chiesto il ritratto in terracotta di una bimba di otto anni ho pensato che anche noi, talvolta, vogliamo fermare il tempo.

Ho trovato dei contenitori industriali per l’acqua, delle grandi bottiglie di plastica. Una bottiglia è come un piccolo mondo a sé ma può anche contenere dei messaggi per il mondo di fuori. Vorrei che fossero messaggi di speranza per il futuro. Questo mi auguro. Come le barchette che i bambini in bottiglia stringono a sé caparbiamente. Le barchette rinchiuse nelle bottiglie ma anche quelle che un giorno navigheranno per oceani.

Per ora i ritrattini con barchetta stanno moltiplicandosi e le loro bottiglie non sembrano troppo strette. Vi fluttuano dentro come in un utero accogliente. O meglio, come nella bottiglia alchemica in cui gli elementi personificati affrontano le loro trasformazioni. In queste bottiglie troviamo riuniti i quattro elementi: l’Aria, l’Acqua la Terra e il Fuoco che dà consistenza all’argilla o al rame ed è l’elemento rosso.

Luna e tappezzeria nel dormiveglia

Nel dormiveglia percepiamo gli oggetti nel modo più strano. A volte le cose che ci circondano ci disturbano dal prender sonno. La tappezzeria del muro si anima allora e la luna piena che entra dalla finestra ne completa l’opera. Troppo assonnati per reagire, noi subiamo come uno sdoppiamento in cui non riusciamo più a capire cosa sia reale e cosa immaginario. Inutilmente cerchiamo di acchiappare l’inafferrabile. Il collage è realizzato su un vero pezzo di carta da parati. Evidente lo strappo nella parte superiore, come fosse portato via dalla parete di una stanza notturna

 

copertina per libro d'artista (1999)
copertina per libro d'artista (1999)
Julischka (1989)
Julischka (1989)

La grande famiglia di Françoise

  

   Françoise Bohr dipinge e scolpisce per diletto, perché le piace farlo, e per questa stessa ragione, preferisce definire col termine terra-terra di “cose” e non di “opere” i suoi lavori.

Ho voluto fare questa precisazione per evidenziare l’aspetto raro e gioioso della sua arte: ritratti a olio, sculture in terracotta o in foglio di rame delle figlie, il marito, i genitori, i fratelli, gli amici o gli animali di casa, tutti dunque di esseri che le sono vicini, che può osservare da tempo e con i quali ha un profondo legame. Cosicché, il “ritratto” nasce sempre da qualcosa di nuovo che ella ha saputo vedere e cogliere all’interno della continuità del rapporto con la persona in questione, ed è precisamente questa freschezza , questo senso di meraviglia o di gioia che prova a un certo momento, questa felice puntualizzazione, che ella riesce a trasmettere così bene anche a noi.

   Penso al taglio degli occhi e della bocca della testa a grandezza naturale della figlia Michelle, nitido e preciso nel foglio di rame con la superficie tutta accartocciata e raggrinzita come una stagnola, che fa risaltare, con affettuosa malizia, il dettaglio del fiore rosso all’orecchio. Penso ai diversi movimenti del levriero Chéri negli oli o nei fogli di rame; a Elisabeth l’ultima nata, ritratta col pennarello a pochi mesi, a un anno, poi a due, con la precisione di un’istantanea, che ci guarda intenta dai fogli di carta con le diverse espressioni della sua crescita.

   Per molti anni, andando a trovare Françoise e Roberto a casa loro, mi è capitato di osservare con piacere e allegria un grosso pappagallo peruviano in legno colorato, appollaiato su un trespolo in cima a un armadio, nel bel mezzo di una sua personale foresta di piante da appartamento; nonché un armadillo, in legno naturale e verniciato, che spunta col lungo muso e l’armatura articolata da dietro un cesto di noci e frutta secca posti su un tavolino.

   Mi dà sempre piacere guardare due esemplari per la loro ottima fattura artigianale, ma soprattutto per il dettaglio dell’ambientazione che li rende splendidamente vivi e realistici.

   Benché di legno, col tempo, pappagallo e armadillo, hanno assunto ai miei occhi, l’importanza di animali veri, con una loro spiccata personalità, all’interno della già svariata fauna di casa Menin: il cane, il gatto, il criceto.

   Così mi parve molto giusto che Françoise avesse voluto immortalarli un giorno, quando mi mostrò il grande quadro a olio dell’ara in una foresta verde e intricata alla quale sovrapposi subito, mentalmente, tutti gli squittii e gli stridii, i fischi e i richiami dell’audio di un documentario sull’Amazzonia. O l’acquarello dell’armadillo, sempre cauto e silenzioso, che spunta a destra di un gran mazzo di fiori in un vaso. Una volta Françoise mi raccontò che si era ripromessa di dipingere ogni mazzo di fiori che avesse ricevuto, fece quello con l’armadillo, ma le mancò il tempo per tutti i successivi.

Il levriero persiano Chéri, cane nobile, freddoloso ed esigente, sta invecchiando. Dopo la sua prima malattia, Françoise provò l’urgenza di ritrarlo a pastello in tutta una serie di svariate posizioni acciambellate che mi colpiscono per la sicurezza e l’apparente velocità del tratto. Cosicché. le ossute linee di quel corpo a riposo, le quattro zampe lunghe e sottili, continuano a sprigionare la vocazione allo scatto e alla corsa di quella sua razza inseguitrice di lepri.

   Sempre a proposito di movimento, dell’abilità di Françoise nel saper cogliere e rendere il movimento, non posso non ricordare i suoi schizzi fatti a matita o con la biro su quei foglietti “volanti”, i Post-it, che nella loro effimera qualità di pro-memoria, hanno una grazia e mostrano una maestria tutte particolari: ecco la coppia nella posizione del casqué di un tango, la mossa della danzatrice classica, la testa reclinata nel sonno della figlia Charlotte. Ecco il criceto, il gatto, il topolinoche scappa in cerca di un nascondiglio, con la paura che gli pesa sulle spalle come il mondo intero.

   Una notte di otto o nove anni fa, Françoise mi sognò in forma di sirena, e così volle ritrarmi in un quadro a olio su masonite, un po’ naïf che mi regalò e nel quale mi snodo all’insù dalla mia grossa coda acquamarina come un drago orientale. Il quadro me lo donò in primavera. Quell’estate, Françoise con Roberto e le figlie, andarono tutti in ferie nella Germania dell’est. In campeggio, un giorno capitò loro di comprare una lattina rotonda di filetti di aringa Julischka, che reca sul coperchio il disegno-fumetto di una sirena.

   Françoise sa benissimo quale valore abbiano per me le coincidenze, che vedo come una sorta di prova del nove della giustezza di un fatto, una legge aurea del destino.

   Così, anche se né lei né io sappiamo ancora perché mi abbia sognato in forma di sirena, una ragione deve pur esserci e forse un giorno verremo anche a saperla.

   Nel frattempo, quel coperchio tondo, col vezzeggiativo russo del mio nome e la tautologia della sirena, fa parte del suo quadro premonizione. Attaccato alla cornice con lo scotch, vi pende come una medaglia sulla giacca di un generale, non certo in segno di valore sul campo, bensì a riprova dell’aspetto raro e gioioso del suo lavoro d’artista.

 

                 Giulia Niccolai (1998, Introduzione al Catalogo di Panni sporchi)